Riassunti Divina Commedia canti

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    Letteretura Italiana: Dante Alighieri - Divina Commedia Inferno - Riassunti - Critica
    INFERNO CANTO I


    Nella primavera del 1300, a 35 anni, l’età che egli considera il punto di mezzo della vita umana, Dante inizia il suo viaggio nell’oltretomba. Irretito in una vita peccaminosa (la selva oscura) non riesce a trovare da solo la via del bene. La selva lo riempie di terrore, essendo un chiaro preannuncio della dannazione della sua anima. Egli non saprebbe nemmeno ricostruire le fasi del suo allontanamento dalla vita virtuosa, perché quando cominciò a peccare, signoreggiato ormai dai soli istinti, privo di luce intellettuale (pieno di sonno), non aveva più la possibilità di discernere il bene dal male. Quando Dante, all’uscita dalla selva, vede la sommità del colle (simbolo della faticosa ascesa verso il bene, dell’espiazione, della purificazione) illuminata dai raggi del sole (simbolo della Grazia), comincia a sentirsi rinfrancato, come un naufrago sfuggito ai marosi e approdato, ancora incredulo della propria salvezza, alla riva. Inizia l’ascesa del colle. Ma tre belve: (allegorie di tre peccati specifici - la lussuria, la superbia, l’avarizia - o, secondo altri, delle tre categorie aristoteliche del peccato - la malizia, la sfrenata bestialità e l’incontinenza -) lo ostacolano nel suo procedere, così che egli alla fine dispera di poter raggiungere la vetta ed è sospinto nuovamente verso la valle della perdizione. A questo punto gli appare l’ombra di Virgilio (simbolo della ragione umana, della filosofia) il quale gli annuncia che, se vorrà approdare alla meta agognata dovrà seguire un altro percorso, visitando successivamente, sotto la sua guida, il regno dei dannati e quello delle anime purganti. Perché poi egli possa avere diretta conoscenza del regno degli eletti, Virgilio dovrà affidarlo alla guida di Beatrice (simbolo della fede, della teologia).


    Introduzione critica

    Per opinione unanime dei critici i canti introduttivi della Divina Commedia, mentre ci darebbero la chiave interpretativa di tutto il poema, non riuscirebbero a raggiungere una persuasiva individuazione di personaggi, caratteri, situazioni. Il giudizio del Croce sul primo canto può rendere ragione di questa valutazione negativa: " Specialmente il primo canto dà qualche impressione di stento: con quel "mezzo del cammino" della vita, in cui ci si ritrova in una selva che non è selva, e si vede un colle che non è un colle, e si mira un sole che non è il sole, e s’incontrano tre fiere, che sono e non sono fiere, e la più minaccevole di esse è magra per le brame che la divorano e, non si sa come, " a vivere grame molte genti". Tanta severità non è certo fatta per invogliare alla lettura chi intenda accostarsi al << poema sacro " per la via additata dal suo autore, affrontando cioè per prima cosa l’intrico di simboli che ne adombrano il mistico significato. Una più cordiale adesione alla parola del Poeta, pur nel suo laborioso maturare, gioverebbe senza altro meglio allo scopo. L’ostacolo maggiore per noi, nel seguire Dante agli esordi del suo capolavoro, è senza dubbio costituito dall’allegoria, questo schema interpretativo che è stato argutamente definito da uno storico la << pianta parassita nella serra della tarda antichità " e che ritroviamo in tutte le manifestazioni dell’arte del medioevo. La nostra mentalità positiva, tutta volta al concreto e all’"effettuale", ben difficilmente trova di che nutrirsi nel miracoloso tessuto di rispondenze che la mente medievale scorgeva dappertutto nell’universo. Perduto il senso del "sacro", stentiamo a scorgere nelle cose la traccia di un Creatore, la misura di un ordine sottratto al fluttuare degli eventi. Ai tempi di Dante non era così. Il linguaggio dei simboli era di dominio comune, l’uomo era avido di "interpretazioni" che colmassero l’infinita distanza che lo separava da Dio. Ma anche a noi l’allegoria non può non apparire legittimata in pieno, là dove crea Un linguaggio autonomo, non vincolato alla lettura " in chiave " che essa propone. Se cioè essa non esaurisce le sue risorse espressive nella delimitazione del proprio ambito di concetti, ma anzi, come quasi sempre in Dante, conferisce alla parola, coll’immetterla in una prospettiva infinita, una dimensione espressiva che altrimenti non avrebbe, allora dobbiamo riconoscerle il diritto a una considerazione non prevenuta sul piano della poesia. Forse la poesia dei canti introduttivi della Commedia va cercata nel tono particolarissimo che l’uso dell’allegoria conferisce alla parola di Dante: tono severo, assorto, meditativo in cui rivive, riportato entro una prospettiva medievale, l’alta ispirazione dell’Antico Testamento." Il verso con cui si apre l’Inferno, e insieme la Divina Commedia, emerge da una memoria tutta percorsa da echi biblici e profetici. Il testo di Isaia " ego dixi in dimidio dierum meorum vadam ad portas inferi " (XXXVIII, 10), direttamente citato dalle parole di Dante, e il testo del Salmo LXXXIX, 10 "dies annorum nostrorum sePtuaginta anni ", da esse indirettamente alluso, evocano un’atmosfera solenne in cui il discorso acquista come una dignità liturgica, il sigillo sacro di un annunzio misterioso." (Getto)Osservazioni analoghe si possono estendere al I canto nel suo complesso. Tra i momenti lirici di più agevole lettura spiccano, in questo canto, il drammatico paragone del naufrago, la paradisiaca apparizione della luce sulla cima del colle, la dolente elegia di Virgilio consapevole di essere per sempre bandito dal premio dei beati (oh felice colui cu’ivi elegge!). Dal canto suo la rappresentazione delle fiere, pur rispondendo a criteri allegorici, è tutt’altro che fredda e classificatoria. Non possiamo vedere in esse soltanto " tre motivi da miniatura medievale e da bestiario". Ancora il Getto, svolgendo alcuni spunti chiarificatori del Momigliano, per il quale nella presentazione delle tre fiere "si rivela la capacità di Dante di cogliere le linee significative di un essere vivente, di darne, per così dire, la definizione pittorica", precisa: "Dante non ci presenta degli animali rigidi, imbalsamati, ma al contrario degli animali in movimento, vivi... La lonza è tutta balzante leggerezza e morbida agilità e sferzante eleganza... Il leone, a sua volta, ha qualcosa di statuario, un’imponenza monumentale dà cui si sprigiona però una forza compressa, una fierezza energica... La lupa, infine, assume un profilo nervoso, sfinito e teso a un tempo... Essa è definita come la bestia sanza pace: un tratto che, di nuovo, coglie l’intimità e insieme il gesto dell’animale, il suo istinto e il suo agire, l’insaziabile cercare". E’ vero che le tre fiere sono nate nella fantasia del Poeta non da una presa diretta di contatto con la natura, ma da una sentita rielaborazione della Sacra Scrittura (Geremia, lamentando la corruzione del regno di Giuda, dice: "Ecco perché il leone della foresta li uccide, il lupo del deserto li sbrana, il leopardo è in agguato davanti alle loro città"; V, 6). Ma - conclude il Getto - "l’operazione poetica svolta da Dante" consiste qui in una "ricerca che è simultaneamente intellettuale ed estetica", così che, "come nel linguaggio biblico, in genere, e soprattutto in quello profetico, si determina una specie di continuo spostamento dal primo piano dell’immagine a quello più lontano e segreto del pensiero". Si trattava "da un lato di umanizzare, di rendere passionali, viziose le tre fiere, e d’altro lato di dare alle sue idee di peccati un carattere bestiale, sottolineandone l’aspetto disumano, ferino". La coordinazione tra figura e figurato non è pertanto riuscita arbitraria sul piano della poesia.


    INFERNO CANTO II


    Dante, uscito dalla selva del peccato, aveva iniziato l’ascesa del colle all’alba. Al tramonto dello stesso giorno egli si sente assalito da dubbi: per quale suo merito particolare è stato prescelto a visitare da vivo il regno dei morti? Due soli altri esseri viventi erano scesi nell’oltretomba in carne ed ossa: Enea e San Paolo. Ma essi erano stati destinati da Dio a porre in terra le fondamenta della società umana, rispettivamente nell’ordine temporale e in quello spirituale: il primo in quanto capostipite dei Romani, il secondo in quanto propagatore ed organizzatore del Cristianesimo. Per dissipare queste perplessità Virgilio gli spiega i motivi che lo hanno indotto a venire in suo soccorso. Tre dorme benedette hanno avuto compassione di Dante in cielo: la Vergine Maria ha raccomandato la salvezza del Poeta a Lucia, la quale a sua volta ha esortato Beatrice a sottrarlo al mortale pericolo in cui si trovava. Le accorate parole e la sovrumana bellezza della beata, discesa ad implorarlo, hanno reso il poeta latino impaziente di obbedirle. Al nome della donna amata in gioventù Dante si rianima, non diversamente dai fiori all’alba, e, senza più esitazioni, segue Virgilio nel difficile cammino verso la porta dell’inferno.


    Introduzione critica

    Dei vari momenti di poesia che in questo canto confluiscono, la critica non ha tardato ad individuare quelli di più immediata resa lirica: dal tragico tramonto dei versi iniziali alla spirituale apparizione di Beatrice - che la umana passione non tange e che pure, umanamente, lascia trapelare, nel fuoco di carità che la muove, l’amore di un tempo per il suo fedele amico - alla fresca similitudine dei fioretti, che avvia il canto alla sua conclusione su una nota di speranza. Più arduo tuttavia e controverso appare il discorso allorché si passi, dallo studio di questi nuclei lirici di incontrastata evidenza, all’analisi dell’ordito in cui si inseriscono. Subito dopo i pensosi versi d’apertura troviamo una sommaria invocazione alle Muse, cui seguono l’esposizione che Dante fa al maestro dei propri dubbi e la risposta di Virgilio. Sono queste le parti da molti giudicate impoetiche (il Croce trova qui "titubanze artificiate per dar luogo a risposte informative... domande non necessarie e risposte che vanno di là dalla domanda"), ma al tempo stesso indispensabili all’architettura generale del poema, per la funzione esplicativa che in esso svolgono. In questo canto, infatti, detto anche "prologo in cielo" per distinguerlo dal primo, detto "prologo in terra ", il Poeta fornisce al lettore le premesse di natura storico-teologica del suo viaggio nell’al di là. Già fin dal primo canto il dramma di Dante era apparso come il dramma dell’umanità allontanatasi dalla via del bene. Singolarmente indicativa, a tal proposito, era stata la figura della lupa, simbolo di un traviamento, almeno in ugual misura, politico ed etico, cui si era contrapposta, nella profetica anticipazione di Virgilio, la figura, messianica e purificatrice, del Veltro. E’ essenziale, per poter penetrare nello spirito della Commedia, capire che per Dante la lotta tra il bene ed il male non si svolge soltanto nell’intimità delle coscienze, ma ha per teatro il mondo e si concreta in eventi storici, il Poeta abbraccia con un solo sguardo il campo delle intenzioni e quello delle azioni che ne risultano, e si erge a giudice delle une non meno che delle altre. Il suo giudizio ci apparirà ora motivato da considerazioni di pura natura etica, ora invece fortemente influenzato da moventi politici, ma questa scissione che noi siamo portati a stabilire oggi fra due sfere dell’agire (la politica e la morale), nella visione rigorosamente unitaria che del mondo aveva il Medioevo, e di cui Dante è il più alto interprete, non esisteva. Comunque, uno dei miracoli della sua poesia, e non dei minori, sta proprio nel riproporci, viva e stimolante, in un secolo di dubbi e di cautele critiche, quell’indissolubile unitarietà di visione. Già dunque nel primo canto Dante ci aveva dato gli antefatti del suo viaggio; ma ce li aveva dati in chiave enigmatica, ricca di suggestioni fantastiche, aperta a una varietà di interpretazioni pressoché illimitata. In questo secondo canto l’ambito delle sue preoccupazioni si precisa: non più animali a significare le passioni dell’animo, non più occulte concordanze col tempo astronomico a suggerire una felice disposizione delle costellazioni all’impresa. Ora Dante fa i nomi di coloro che hanno avuto una funzione provvidenziale sul corso della storia (Enea e San Paolo) e che in virtù di questa loro funzione hanno potuto, da vivi, varcare le soglie dell’oltretomba, e con essi si raffronta. La sua parola è cauta, la struttura sintattica del discorso che rivolge a Virgilio, tormentata e complessa. Ma non dobbiamo vedere in questo procedere per gradi del suo ragionamento un segno di freddezza, una temporanea assenza dell’ispirazione, quanto piuttosto l’espressione di un fuoco represso, di un calore contenuto, di una urgenza controllata. Parlando a Virgilio, Dante fa in realtà un esame di coscienza e non c’è alcun motivo per sostenere che un esame di coscienza sia in se stesso tema meno poetico di un’estasi d’amore. Inoltre dobbiamo tener presente, fin da questi canti iniziali, che la poesia di Dante non nasce su un terreno vergine di cultura, quale quello cui aspirano i poeti nelle epoche di stanchezza, di transizione, quando, sotto il peso di una tradizione ormai esausta, sembra impossibile recuperare la genuinità del sentire, ma si alimenta anzi di continui suggerimenti culturali. E’ raro che questi suggerimenti restino in Dante arida dottrina: quasi sempre egli li investe della sua passione e li plasma poeticamente, mentre essi, a loro volta, conferiscono alla terzina dantesca la sua straordinaria densità e robustezza. Per il fatto che nella Divina Commedia esistono (ma raramente sono isolabili dal contesto in cui sono inserite) zone di più facile lettura, non è detto che la poesia di Dante vada di necessità ricercata in queste, ad esclusione di altre in cui l’espressione lirica si avviva al contatto con la notizia storica, la precisazione geografica, il problema filosofico, l’assioma teologico. In particolare qui, nel secondo canto, le parole che Dante rivolge al maestro per manifestargli le sue esitazioni riescono ad esprimere compiutamente, con i riferimenti alla storia di Roma e a quella del papato, la consapevolezza che Dante ha della sua alta missione. La risposta di Virgilio, anch’essa elaborata, partecipa di tutt’altra atmosfera: è la certezza che risponde al dubbio; la sua complessità è più esteriore che interiore. Soltanto la comparsa di Beatrice scioglie quello che di troppo rigido rimane per noi nel cerimoniale, evocato dal poeta latino, delle tre donne benedette e schiude una pagina di sovrana e luminosa poesia: come sempre, quando Dante ricorda la donna da lui tanto amata in gioventù, la parola gli si fa lieve, incorporea, tanto più casta quanto più appassionata; la politica, la cultura, il pesante fardello delle sue cure, sono per un istante dimenticati; resta solo uno sguardo rivolto al cielo, una sete religiosa di chiarezza, l’umiltà di un "grande" ai piedi di una " santa ".


    INFERNO CANTO III


    Sulla porta dell’interno un’epigrafe promette, a chi varcherà la soglia, disperazione e dolori eterni, ma Virgilio invita Dante a deporre ogni forma di timore e ogni perplessità; poi, presolo per mano, con volto rassicurante, lo fa entrare. Nel buio profondo il Poeta è dapprima colpito da un orribile clamore di voci, poi intravede un numero sterminato di anime che instancabilmente corrono dietro un vessillo: sono le anime degli ignavi. Insieme ad esse si trovano anche quegli angeli che si erano dichiarati neutrali quando Lucifero insorse contro Dio. La pena degli ignavi è avvilente, spregevole: mosconi e vespe li pungono a sangue e il sangue è succhiato ai loro piedi da vermi ripugnanti. Nella turba anonima Dante riconosce colui che, per pusillanimità, rinunciò alla cattedra di Pietro per la quale era stato prescelto (forse Celestino V). Proseguendo nel loro cammino i due poeti giungono sulla riva del fiume Acheronte, dove si raccolgono tutte le anime dei peccatori in attesa di essere traghettate sull’ altra sponda da Caronte. Il nocchiero svolge il suo compito senza parlare: ordina alle anime di salire sulla barca facendo loro dei cenni, e, se qualcuna mostra di voler indugiare, la percuote col remo. Caronte, accortosi che Dante è ancora in vita, lo ammonisce a tornarsene sui suoi passi, ma Virgilio lo costringe al silenzio rivelandogli che il viaggio del suo discepolo si compie per volere del cielo. Improvvisamente la terra trema, e, mentre un lampo di luce rossa squarcia le tenebre, Dante perde i sensi.


    Introduzione critica

    In una lezione del corso tenuto a Torino nel 1854 Francesco De Sanctis, soffermandosi sull’ispirazione che è all’origine de] terzo canto dell’Inferno, aveva ravvisato in esso il canto del "sublime". Poiché il sublime non può concepirsi disgiunto da un certo grado di indeterminazione (esso, infatti, "consiste meno in quello che è espresso che in quello che è sottinteso"), per il critico la poesia delle prime impressioni, che il Poeta riceve dalle tenebre infernali, nasce dal fatto che il mondo dei dannati, visto più con l’immaginazione che con gli occhi, "è ancora in lontananza ".Non troveremo pertanto, nel vestibolo del regno dei morti, che "lineamenti generali, poche linee solamente...; ma tutto quello che viene appresso altro non è se non queste stesse linee che si vanno a poco a poco determinando e prendendo questa e quella figura". Una bella e vigorosa immagine aiuta il critico ad illustrare la "formidabile unità del canto": "E’ l’albero della vita che il Poeta ti sfronda a foglia a foglia ad ogni passo che muove innanzi; e ne toglie la speranza: lasciate ogni speranza, voi ch’entrate. E ne toglie le stelle: quivi sospiri, pianti e alti guai risonavan per l’aere sanza stelle. E ne toglie il tempo: facciano un tumulto il qual s’aggira sempre in quell’aere senza tempo tinto. E ne toglie il cielo: non isperate mai veder lo cielo. E ne toglie l’intelligenza: ch’anno perduto il Ben dell’intelletto". Un’analoga valutazione positiva ci ha dato nel suo saggio su Dante il Momigliano. Illustrando quello che, nella Commedia, è "il perpetuo commento paesistico del tema psicologico", aveva notato, nel terzo canto dell’lnferno, "il colore della disperazione": "Quella pianura livida è un fosco riverbero delle anime che approdano alla disperazione eterna". Tre sono i motivi conduttori del canto. Abbiamo da un lato il grande tema metafisico dell’eternità delle pene infernali, tema che accompagnerà costantemente il Poeta nella prima parte del suo viaggio e che ora si preannuncia, soprattutto nelle terzine dell’esordio, in una delle sue più allucinanti orchestrazioni. Il secondo tema esprime la simpatia di Dante per la vita attiva, impegnata, responsabile. Questo tema si configura qui nel suo riflesso negativo, come disprezzo per coloro che si sono lasciati vivere, invece di conquistarsi la propria vita. A questi due temi si affianca un terzo, che potremmo definire pittorico, di creazione di atmosfera, intendendo col Momigliano per atmosfera qualcosa che "è più che l’ambiente materiale: ... l’ambiente materiale fuso con i suoi riflessi psicologici ".Esso esprime un vigoroso immaginare " per gruppi d’insieme, per "masse" (Sapegno); il chiaroscuro, i contrasti di luce e ombra, non individuano ancora caratteri, situazioni drammatiche, ma creano come un clima d’incubo, di orrore grandioso e indefinito. Questo addensare "ombre su ombre" sullo sfondo di un "orizzonte aggrondato" (Momigliano) ha una funzione preminente nel determinare le tonalità della seconda parte del canto. Qui sterminate turbe di anime fanno ressa sulla riva di un fiume per andare a espiare le loro colpe, qui l’anima è completamente soggiogata da quel Dio che disperatamente nega, qui Dio è presente in ogni atto, pensiero, desiderio. Alla smania paradossalmente inerte - perché impersonale, perché da tutti sentita allo stesso modo - che i dannati mostrano nel correre incontro alle loro pene, fa riscontro lo sferzante imperio di Caronte, la sua comparsa rapida e rabbiosa. Mentre i primi due temi si inquadrano in una prospettiva ancora per larga parte medievale, nel terzo il Poeta riecheggia forme e motivi della presentazione dell’oltretomba fatta nel sesto libro dell’Eneide. E’ stata rilevata a questo proposito, nella corrispondenza dei richiami dal testo volgare a quello latino, una incertezza di tono, "come se il poeta nuovo, addentrandosi nell’indagine di una materia inconsueta e nell’esercizio di una tecnica ignota, avvertisse il bisogno di puntellare la sua inesperienza su una trama di suggerimenti inventivi e formali, capaci di stimolare la sua fantasia e di fornirgli gli schemi più appropriati del movimento narrativo ..."Questo impaccio sarebbe, tra l’altro, rivelato dalla struttura di tipo prevalentemente paratattico sia del canto sia della singola frase. Così, tanto per fare un esempio, nella "duplice progressione, prima ascendente - sospiri, pianti, alti guai - poi discendente - lingue, favelle, parole, accenti, voci" dei versi 22-27, con la quale Dante riprende una movenza virgiliana, è stato visto un eccesso di artificio che rasenterebbe l’enfasi, mentre la poesia si affermerebbe nel paragone con la rena turbinante della terzina successiva, e, più ancora, nel "senso, tutto intimo, di quelle tenebre - l’aere sanza stelle, l’aura sanza tempo tinta - che avvolgono il tumulto e ne dilatano paurosamente l’orrore". L’autore di queste osservazioni, il Sapegno, ha d’altra parte messo in luce, in questo stesso canto, la diversità di taglio, di impostazione dell’immagine dantesca rispetto a quella virgiliana, animata la prima in ogni sua più riposta piega dalla presenza del trascendente, e quindi mai statica, pur nella fermezza del disegno; levigata e composta la seconda, frutto di una cultura più stanca. Ma altrove, proiettando sul canto nel suo insieme la luce di alcune analisi particolari, vede in esso emergere tutti i dati "con una connotazione, diciamo così, negativa". Qui le sue perplessità ci appaiono eccessive.Il giudizio del De Sanctis e quello del Momigliano che vedeva nel terzo, "fra i canti unitari dell’Inferno, uno dei più belli", proprio perché in esso Dante "sembra lavorare d’istinto, e perciò non calca suoni, linee, tinte, come faranno invece i suoi tardi imitatori della fine del ‘700 e del principio dell’800" - per quanto meno motivati, colgono più da vicino la sostanza del canto.


    INFERNO CANTO IV

    Un tuono fragoroso risveglia Dante dal sonno in cui era caduto sulla riva dell’acheronte. Egli si guarda intorno e si accorge di trovarsi sull’orlo della voragine infernale, buia e profonda. E’ preso da timore nel vedere che Virgilio impallidisce, ma il maestro lo rassicura: il suo pallore non è dovuto a spavento, ma a pietà per la sorte dei dannati. Entrati nel primo cerchio infernale, che è costituito dal limbo, i due poeti odono i sospiri delle anime di coloro che vissero una vita virtuosa senza aver ricevuto il battesimo. Per non essere state cristiane, non possono ascendere al paradiso; d’altra parte, non avendo in sé altra macchia se non il peccato di Adamo, non sono sottoposte a tormenti: la loro pena è tutta spirituale: vivono nel desiderio, mai appagato, di vedere Dio. Quattro spiriti si fanno incontro ai poeti: sono le anime di Omero, Orazio, Ovidio e Lucano, venute a rendere onore a Virgilio. Esse salutano benevolmente Dante e l’accolgono nella loro schiera. I sei camminano insieme, discorrendo, e giungono in un luogo luminoso, ai piedi di un castello difeso da sette cerchi di muta e da un corso d’acqua, che essi attraversano come se fosse terraferma. Dopo aver varcato, passando per sette porte, il settemplice giro di mura, il gruppo dei sei poeti arriva in un prato verdissimo e fresco. Da un’altura Virgilio indica a Dante alcuni tra i più nobili spiriti dell’antichità e del Medioevo non cristiano. I due si separano quindi dai loro accompagnatori e, lasciato il limbo, giungono nuovamente in un luogo privo di luce.

    Introduzione critica

    Tra la squallida miseria degli ignavi e la bufera, che mai non resta, che travolge nel canto quinto i lussuriosi, il limbo inserisce una pausa di cogitabondo silenzio, di rassegnata mestizia. Il Tommaseo vedeva in esso qualcosa "della serena aura della seconda cantica". E infatti la spiritualità della pena che affligge le anime del limbo, la compostezza dignitosa o solenne dei loro modi, la manifestazione della loro malinconia, così discreta e lontana da ogni forma di drammatico rilievo, concorrono a fare del canto terzo un capitolo a sé nel discorso lirico e narrativo dell’Inferno. Una funzione analoga, di sereno intermezzo, aveva avuto, tra gli incubi dell’incontro con le tre fiere e l’ingresso nel regno dei morti, il "prologo in cielo il del canto secondo. Ma la raffigurazione del limbo è forse più interessante, perché qui Dante, scostandosi dall’opinione dei teologi, attribuisce una condizione di privilegio a coloro che in terra hanno vissuto rettamente al di fuori della fede, e una condizione di privilegio ancora più grande a coloro che hanno nobilitato l’umana natura per altezza d’ingegno e di opere. Il De Sanctis ha visto nel limbo dantesco, paradossalmente, un’espressione di fondamentale laicità: " Qui nel limbo la mancanza di fede è un semplice accessorio, e l’interesse è tutto nel valore intrinseco dell’uomo, come essere vivo, come forza. Dio ha lo stesso criterio poetico, e dà ad alcuni un luogo distinto, non per la loro maggiore bontà, ma per la fama che loro acquistò in terra la grandezza dell’ingegno e delle opere. Concetto poco ascetico e poco ortodosso; ma Dio si fa poeta con Dante, e gli fabbrica un eliso pagano, un Pantheon di uomini illustri". E certo è significativo che Dante, dopo aver collocato gli ignavi all’ingresso dell’inferno, formulando nei loro confronti un giudizio nuovo e personale rispetto alla dottrina teologica del suo tempo, celebri qui con tanto fervore gli "infedeli negativi" e li isoli, in un clima di sereno oltretomba virgiliano (ma, come ha notato un critico, la classicità dell’episodio rivive in forme ancora tipicamente medievali), sotto una cupola di luce, quasi a rendere tangibile, concreta, la luce intellettuale che intorno a sé, in vita, diffusero i grandi spiriti dell’antichità. Ma il pensiero di Dio informa di sé la sostanza del canto, qui non meno che altrove nell’Inferno. Sostenere che nel limbo la mancanza di fede sia un semplice accessorio, vuol dire precludersi la possibilità di cogliere la poesia del canto nei suoi motivi più profondi, nella sua tonalità più genuina. E’ vero che qui Dio non è visto, come in tutto il resto della prima cantica, in una forma di intervento attivo, come giustizia vindice, riparatrice dei torti. Ma, nei sospiri che fanno tremare l’aria, Egli è presente come un Bene irraggiungibile. Non diversamente, nella speculazione del maestro di color che sanno, Aristotile, il Motore Primo, immobile nella sua perfezione, aveva rappresentato, per gli esseri, la direzione costante del loro movimento. Il tono elegiaco di queste pagine ha qui la sua motivazione: in questa lontananza da Dio, non scelta, non voluta, ma subita come un destino, nella imperscrutabilità dei suoi disegni, nella rinuncia ad interrogarli. Le anime del limbo, di fronte al mistero, chinano la fronte, si raccolgono in un sommesso meditare. Sulle terzine iniziali in cui, per bocca del maestro, Dante manifesta la sua angoscia per la sorte dei dannati, grava ancora la cupa atmosfera del canto precedente, ma poi via via la sua parola si rasserena fino ad esaltarsi nella scena dell’incontro con i quattro massimi poeti dell’antichità e nella celebrazione della grandezza umana. Grandezza insufficiente, perché non illuminata dalla Grazia, grandezza nobilmente accorata per questa mancanza non sua, grandezza consapevole di aver operato rettamente nei limiti che le erano stati concessi. Si è parlato per Dante di "umanesimo cristiano", e certo in lui la fede non nega il sapere e l’azione, come nelle forme più radicali del pensiero dei mistici, ma anzi li integra e li consacra, conferendo loro una validità assoluta. Nel limbo, tuttavia, questo momento umanistico, che ricollega il Dante della Commedia al Dante del Convivio, assertore entusiasta della superiorità culturale dei Greci e dei Latini, ha una linea di sviluppo ancora prevalentemente decorativa. Il significato della grandezza degli antichi non è approfondito oltre la presentazione, tutt’altro che fredda, ma sommaria e tradizionalmente atteggiata, del tipo ideale del " saggio". L’angoscia delle genti, che fa impallidire Virgilio all’inizio del canto, rivela una più commossa aderenza della parola al tema trattato che non la filosofica famiglia o il nobile castello.In questa seconda parte del canto, dove una scenografia composita ed illustre rivive in particolari di fanciullesco candore (quasi ad alleviare, portandolo sul piano delle nobili favole, un motivo di perplessità e di smarrimento, un tema destinato ad essere affrontato con più maturo impegno in altri luoghi del poema), "ammirazione, riverenza, malinconia sono sentimenti accennati, ma non rappresentati " (Croce). Eppure, se teniamo conto che, come per la scena del traghetto delle anime nel canto precedente, anche qui il Poeta si è ispirato all’Eneide, l’episodio dell’incontro con i grandi dell’antichità e la descrizione del nobile castello ci consentono di rilevare alcune delle caratteristiche più avvincenti dell’arte di Dante: ad esempio, rispetto alla solennità sorvegliatissima del modello latino, un’adesione più diretta e cordiale ai dati della leggenda, una familiarità più dimessa e fiduciosa nella presentazione dei grandi nomi a lui cari, un entusiasmo per i valori della ragione che nessun dubbio ancora è riuscito ad incrinare.


    INFERNO CANTO V


    A guardia del secondo cerchio della voragine infernale i due pellegrini trovano il ringhioso Minosse. Questi, dopo aver udito la confessione dei peccatori che si affollano al suo cospetto, attorciglia la coda intorno al proprio corpo, per indicare, con il numero dei giri, il cerchio dove ogni dannato dovrà espiare la sua colpa. Nel secondo ripiano scontano il loro peccato le anime dei lussuriosi: nel buio un’incessante bufera le travolge, facendole dolorosamente cozzare le une contro le altre, cosicché l’aria è piena di lamenti. Pregato dal suo discepolo, Virgilio gli addita i personaggi celebri dell’antichità e del Medioevo che non seppero vincere in sé la passione, e che per essa perdettero la vita: Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille... Dante esprime il desiderio di parlare con due di queste ombre: esse, diversamente dalle altre, procedono indissolubilmente unite e sembrano quasi non opporre resistenza al vento. Sono Francesca da Rimini e Paolo Malatesta, colpevoli di adulterio. Chiamati da Dante, i due peccatori si accostano, e Francesca, manifestata al Poeta la sua gratitudine per aver egli avuto pietà della loro pena, narra di sé e dell’amore che con tanta forza la legò a Paolo. Dante, turbato, vuole sapere quali circostanze portarono il loro sentimento reciproco a trasformarsi in amore colpevole, e Francesca si abbandona ai ricordi del tempo felice: erano soli; leggevano un romanzo; fu quella lettura a far incontrare i loro sguardi, a farli trascolorare; fu il primo bacio scambiato fra i protagonisti di quel romanzo a renderli consapevoli della loro passione. Mentre Francesca parla, Paolo piange: a questa vista, per la profonda pietà, Dante perde i sensi.


    Introduzione critica

    L’Ottocento ci ha dato, in alcune pagine del Discorso sul testo del poema di Dante, di Ugo Foscolo, e in un saggio del De Sanctis, le interpretazioni più umane e avvincenti di quella che è senz’altro la più popolare, la più amata delle creazioni della fantasia di Dante: l’episodio di Paolo e Francesca. Per il Foscolo, in Francesca da Rimini la colpa è "purificata dall’ardore della passione, e la verecondia abbellisce la confessione della libidine; e in tutti que’ versi la compassione pare l’unica musa", poiché non "sì tosto la passione incomincia ad assumere l’onnipotenza del fato, ed opera come fosse la sola divinità della vita, ogni tinta d’impudicizia, d’infamia e di colpa dileguasi".Il De Sanctis vide in Francesca "la prima donna viva e vera apparsa sull’orizzonte poetico de’ tempi moderni" Contrariamente a Beatrice, Francesca è, per il grande storico della letteratura italiana, qualcosa di più di una semplice astrazione (" il puro femminile... il genere o il tipo"): è "vera e propria persona, in tutta la sua libertà". La poesia della donna starebbe proprio nell’essere vinta: perciò Francesca si anima ai nostri occhi di vita poetica purissima proprio nell’atto in cui soggiace a quella ferrea "necessità che Dante ha espressa con rara energia nella frase: amore... a nell’amato amar perdona ". In queste formulazioni non è difficile scorgere un eccesso di coloritura romantica, sia per il rilievo che il De Sanctis ama dare al risultato di una generalizzazione (la debolezza in quanto essenza della femminilità), sia per il parallelo, polemicamente istituito, tra le figure di Francesca e di Beatrice. Ma il De Sanctis rimane un modello insuperato di penetrazione critica, allorché passa, dall’inquadramento dell’episodio in una prospettiva discutibile e comunque troppo perentoriamente affermata, all’esame delle singole situazioni, dei loro riflessi psicologici e morali, della loro inesauribile vitalità espressiva. Troviamo inoltre nel suo saggio una caratterizzazione della figura di Francesca non meno felice di quella dataci dal Foscolo: "contrastando e soggiacendo ella serba immacolata l’anima, quel non so che di molle, puro, verecondo e delicato, che è il femminile, <l’essere gentile e puro>". Collocata dalla critica romantica nel segno disperato e fatale di "amore e morte", la tragedia di Francesca è stata oggetto di innumerevoli studi, interpretazioni, dibattiti. Ma essa occupa soltanto una parte del canto, la seconda. Quale rapporto lega le due parti fra loro ? Si tratta soltanto di due creazioni poetiche giustapposte senza intima necessità, o c’è, nel passaggio dalla parte introduttiva all’episodio principale, uno svolgimento coerente di motivi, di forme, di situazioni? E inoltre, nell’episodio stesso, accanto a Francesca, disperatamente legata ai ricordi del tempo felice, accanto a Paolo, che ne accompagna col pianto le parole, quale funzione ha il personaggio Dante? E’ soltanto uno spettatore, un testimone non meno distaccato che indispensabile? O non piuttosto in lui per primo, essere vivente e umanissimo, si raccolgono e contrastano i punti di vista che la tragedia con tanta violenza propone ? Sono queste alcune delle domande cui la critica più recente ha cercato di rispondere. E’ stato rilevato, per esempio, a proposito della presenza o meno di una reale continuità di sviluppo dalla prima alla seconda parte del canto, che i versi dall’1 al 72 vanno considerati "come una introduzione non semplicemente <<scenografica>> e decorativa del grande episodio", ma come la graduale "messa a fuoco dell’acerbo dibattito (amore e perdizione, fragilità umana e pietà) che costituisce il tema principale di questa pagina di poesia" (Caretti). Il Poeta intona il grande tema della pietà come in un " crescendo", dalle martellate terzine della rappresentazione iniziale di Minosse, via via attraverso la descrizione della bufera (con le musicalissime riprese: e come li stornei.... e come i gru..., che preannunciano l’apparizione delle due anime affannate: quali colombe...) e la rassegna delle ombre dei lussuriosi, fino all’orchestrazione del dialogo con Francesca e alla catastrofe dell’ultimo verso. E, d’altra parte, smorza in eguale misura il tema della inesorabilità delle pene infernali, del loro atroce automatismo, per creare, intorno alle parole della donna, una atmosfera più mite, di raccolto dolore, di quasi fraterna sollecitudine.Per quello che riguarda infine la partecipazione del Poeta, in quanto personaggio, all’episodio, notiamo come l’elemento che, nella tragedia di Paolo e Francesca, ne acuisce la compassione fino a fargli perdere i sensi, non è tanto la cronaca di amore e di morte dei due adulteri, quanto, attraverso e oltre questa cronaca, il destino umano in tutta la vastità dei suoi significati, la nostra imperfezione (non la sola fragilità di Francesca, in quanto donna), l’imperscrutabile mistero del nostro rapporto con Dio, il dramma del bene e del male, della salvezza e della perdizione. La vicenda non è quindi, come appariva nella critica romantica, un fatto in primo luogo ed esclusivamente umano, ma suggerisce, nell’atto in cui rivive nella coscienza di Dante, un continuo, appassionato riferimento della dimensione dell’uomo a quella dell’Essere che lo trascende. " Tra i due infelici amanti e la giustizia divina c’è Dante; c’è l’esperienza di lui uomo preso entro la morsa del divino, macerato dalla stretta di una verità immutabile." (Marcazzan) L’episodio che ha reso immortale il quinto canto deve essere riportato alla sua problematicità originaria, visto nella pluralità di prospettive che gli derivano dal suo riflettersi nell’animo del personaggio-autore. Solo così quella irrisolta drammaticità, quella ricchezza sempre nuova di risonanze, quel contenuto di verità inesauribile, che sono il privilegio della vita non meno che della grande poesia, potranno avere, nella considerazione critica di questo capolavoro, il posto che loro compete.


    INFERNO CANTO VI


    Una pioggia nauseabonda, mista a grandine e neve, tormenta i dannati del terzo cerchio: i golosi. Un cane trifauce, Cerbero, li dilania senza tregua. Alla vista dei due poeti il mostro dà sfogo al suo furore, ma Virgilio non ha esitazioni: getta nelle fameliche gole una manciata di fango e la belva, tutta intenta a divorarlo, si placa. Dante, con il maestro, prosegue il suo cammino calpestando la sozza mistura di fango e ombre di peccatori, quando, all’improvviso, una di esse, levatasi a sedere, si rivolge a lui esclamando: <<riconoscimi, se ne sei capace >>. Ma tanta è la sofferenza che ne deforma i lineamenti, da non consentire al Poeta di ravvisare in essi una fisionomia a lui nota. Allora il dannato rivela il suo nome, Ciacco, e profetizza, richiesto dal suo interlocutore, il prossimo trionfo in Firenze, covo di‘ ingiustizie e di odio, del partito dei Neri. Ad una precisa domanda del pellegrino Ciacco rivela che i grandi personaggi politici della Firenze del passato scontano i loro peccati nel buio dell’inferno. Terminato il suo dire, con un’espressione che non ha più nulla di umano, cade pesantemente a terra, in mezzo agli altri suoi compagni di pena. Virgilio, a questo punto, ricorda al suo discepolo che Ciacco, al pari degli altri dannati, riavrà il suo corpo nel giorno del Giudizio Universale e che, dopo la risurrezione della carne, le sofferenze dei reprobi aumenteranno d’intensità. Giunti nel punto ove è il passaggio dal terzo al quarto cerchio, i due viandanti s’imbattono nel demonio Pluto.


    Introduzione critica

    I canti quinto e sesto hanno uno svolgimento narrativo sostanzialmente identico. Esso, per comodità di esposizione, può articolarsi in quattro momenti: incontro col demonio posto a guardia del cerchio, descrizione del supplizio inflitto ai dannati (la bufera... che mai non resta e la piova etterna), drammatico colloquio con uno di essi (Francesca, Ciacco), cui fa seguito la reazione del personaggio Dante (nel quinto canto la perdita dei sensi alla vista del pianto di Paolo; nel sesto la domanda rivolta a Virgilio sull’intensità delle pene infernali dopo la risurrezione dei corpi). Ma le analogie non si fermano qui: almeno per i 24 versi iniziali del canto dei lussuriosi anche l’ordito ritmico appare identico a quello del sesto canto: ogni terzina è un mondo a sé; si sostituisce, più che subordinarsi, alla precedente; ne ripropone, al tempo stesso, forme, idee, inflessioni; ha, nella vis espressiva, la sua prima ragione di essere; rifiuta lo sfumato, non meno di quei nessi sintattici che altrove strutturano la robusta logica della Commedia e sono indici di una concezione che nel reale scorge, al di là del problema, la fermezza di un ordine precostituito ed eterno (con felice intuito è stato visto nel ritmo ternario del poema quasi un equivalente dell’argomentare sillogistico). Nel canto di Paolo e Francesca questo rigore finiva tuttavia con lo stemperarsi nella partecipazione affettiva di Dante, si colorava di pathos, di risonanze umanissime. Troviamo invece, lungo tutto l’arco del sesto canto, una tenace insistenza sul tema dell’inumano, del mostruoso, dell’assurdo. La vita, proiettata nell’al di là, sottratta al tempo che ne costituiva il lievito, ci si mostra dapprima come spaesata, aperta a significati inconsueti; appare, ad una considerazione immediata, irrazionale. Solo in un secondo tempo (nel Purgatorio e nel Paradiso: quest’ultimo è tutta una glorificazione dell’ordine del creato) questa irrazionalità si svelerà come una razionalità più alta, abbacinante nel suo fulgore, insostenibile per l’intelletto non visitato dalla Grazia. Ma nell’lnferno questa razionalità non appare ai nostri occhi ancora completamente dispiegata. Nella prima parte del canto dei golosi l’irrazionale, l’assurdo, si esprimono nella figura di Cerbero. Già in Caronte (colpiva in lui la rabbia immotivata, il suo mutismo nel trattare con le anime: per cenni come augel per suo richiamo), e più ancora in Minosse (nel ringhio bestiale, nell’atto di avvolgere la coda per significare la dannazione, nella sommarietà del giudizio: dicono e odono, e poi son giù volte), c’era stato un allontanamento dall’umano, una progressione nel senso della cecità spirituale. Ma queste figure serbavano, nell’atto di rivolgersi a Dante, una certa solennità di eloquio, si servivano di formule quasi rituali. La loro personalità derivava, proprio dal contrasto fra elementi ferini e umani, una compiuta armonia sul piano dell’arte. Cerbero è invece animalità allo stato puro, tanto più viva quanto più ottusa e demente (non avea membro che tenesse fermo). Lo accomunano ai due guardiani precedenti soltanto i tratti ferini. Notiamo, tra l’altro, la rispondenza e, al tempo stesso, il divario, tra i versi che definiscono Minosse e quelli che ci mostrano Cerbero nell’esercizio delle sue funzioni: per fare un esempio, al verso - dicono e odono, e poi son giù volte - fa riscontro, nella raffigurazione del cane trifauce, l’atto non più dell’inquisitore, ma del carnefice - graffia li spiriti, scuoia e disquatra. Analogamente, se ci volgiamo a considerare la descrizione delle pene inflitte rispettivamente ai lussuriosi ed ai golosi, quella dei lussuriosi ci si presenta come nobilitata dallo scenario fosco e drammatico. ingentilita da similitudini che la riconducono nell’ambito di una natura familiare. Nel sesto canto, invece, anche il paesaggio riflette il venir meno dello spirito, quel torpore dell’intelligenza che rende indimenticabile l’apparizione di Cerbero: sotto la pioggia eterna le anime non si distinguono neppure fisicamente le une dalle altre, rapprese come sono nel putrido fango che le macera. Dal canto suo, la figura del goloso che predice a Dante l’avvenire di Firenze, lungi dal contrastare col quadro in cui è inserita, denuncia, nel modo del suo apparire, nella secchezza del suo discorso, nel suo spaventoso ricadere a par delli altri ciechi, la stessa opprimente tristezza che ha lo spettacolo della pioggia, lo stesso desolato automatismo che presiede al manifestarsi del furore di Cerbero. Il Momigliano ha indicato, nelle parole con cui Ciacco ricorda il mondo dei vivi, accanto alla malinconia, il malumore, una condizione dell’animo che appare dunque al limite fra il riflesso fisiologico e il sentimento cosciente. Ma le riserve da lui avanzate a proposito della "parentesi politica", che inserisce come una nota stridente "in questa personalità patetica sbozzata con una sensibilità viva e sicura", per cui il personaggio di Ciacco non risulterebbe bene scelto in rapporto alla profezia che il Poeta gli fa pronunciare (perché, tra l’altro, "non dimostra nessun interesse personale alla politica e ne parla solo per far piacere a Dante"), gli impediscono di vedere come questo disinteresse sta invece una manifestazione del suo << io >> più profondo, e rifletta l’atmosfera del canto nel suo complesso. Diversamente da quel che accade per le figure di primo piano dell’Inferno, l’espressione che sembra caratterizzare con maggior compiutezza quella di Ciacco si riferisce ad un atto che non ha più nulla di umano: l’atto in cui egli "stravolge gli occhi, rimane un momento immobile, china la testa, poi ricade sul suolo lastricato di ombre: come se morisse un’altra volta" (Momigliano). Ma le parole con cui Virgilio commenta l’uscita di scena del personaggio ne collocano la figura sotto il crisma di una validità eterna, nella luce di una Potenza avvertita come supremamente giusta.


    INFERNO CANTO VII


    Con voce stridula e il volto gonfio d’ira, il guardiano del quarto cerchio, dove avari e prodighi scontano la loro pena eterna, grida parole incomprensibili all’indirizzo dei due poeti. Ma non appena Virgilio gli ricorda che il loro viaggio si compie per volontà di Dio, il suo furore svanisce; il mostro, come privato delle sue force, si accascia al suolo. Essi possono così discendere nel quarto ripiano, dove due fitte schiere di dannati spingono, in direzioni contrarie, grandi pesi. Due sono i punti del cerchio, diametralmente opposti, in cui le schiere si scontrano, rinfacciandosi a vicenda i peccati che le accomunano nel tormento disumano. Poi ciascun dannato si volge indietro e riprende a rotolare il proprio macigno fino all’altro punto d’incontro. La giostra beffarda è destinata a ripetersi in eterno. Questi peccatori sono irriconoscibili: la mancanza di discernimento che li spinse ad accumulare o sperperare il denaro, li confonde ora tutti in una massa indifferenziata ed anonima. "Nessuno dei beni che sono affidati al governo della Fortuna ricorda Virgilio - potrebbe dar loro pace nemmeno per un attimo. "Dante coglie, da questa affermazione del maestro, l’occasione per interrogarlo sulla natura della Fortuna. Essa non è - spiega il poeta latino - una potenza capricciosa e cieca che distribuisce i suoi favori a caso, ma una esecutrice dei disegni di Dio, poiché da Dio è voluto che i beni si trasferiscano, con alterna vicenda, da una famiglia all’altra, da un popolo all’altro. Stesso proprio quelli che dovrebbero ringraziarla la coprono di insulti. Ma essa, intelligenza celeste, assolve il suo compito imperturbabile e serena.


    Introduzione critica

    Il De Sanctis aveva diviso i canti dell’Inferno in due categorie: quella dei canti in cui l’attenzione di chi legge si accentra tutta intorno ad una figura dominante -rispetto alla quale tutte le altre, non meno degli elementi paesistici o morali, appaiono in posizione subordinata e quella dei canti in cui sull’accento drammatico prevale quello descrittivo, e in cui troviamo "gruppi, non individui". "Voi dite prima: il canto di Francesca, di Farinata, di ser Brunetto Latini; qui dite: il canto dei falsari, dei ladri, dei truffatori." Se accettiamo questa partizione, che nel De Sanctis è legittimata dall’impostazione romantica della sua critica, anche il canto settimo dell’Inferno dovrebbe rientrare nella categoria dei canti anonimi e <descrittivi>, canti la cui" funzione sarebbe più << strutturale >> che poetica. In effetti riesce difficile, leggendo Dante, proprio perché Dante ha saputo dar vita a personaggi così complessi e drammatici da trovare pochi riscontri nella letteratura mondiale, liberarsi di quello che potremmo chiamare il << pregiudizio del personaggio li. Eppure la poesia della Commedia è assai più varia e ricca di toni di quanto le formulazioni fin qui avanzate in sede di giudizio estetico, anche se amplissime, consentano di intravedere. Dopo il 1920, anno di pubblicazione del saggio di Benedetto Croce sull’opera di Dante, la critica non ha fatto che recuperare, sotto il segno della poesia, vaste zone del poema considerate fino allora meritevoli di attenzione solo sul piano della cultura, né può dirsi sia giunta ad un punto tale da far considerare ormai di scarso interesse le ricerche in questo senso. La bibliografia critica del settimo canto dell’Inferno è un esempio di quanto certe posizioni desanctisiane siano implicitamente operanti anche in autori altrimenti lontani dal clima in cui l’opera del De Sanctis è maturata. "Canto senza figure, senza vivi elementi di dramma... canto (si noti) intermesso, non solo con buona ragione morale, ma con grande convenienza artistica, per effetto di contrasto, fra i due, che ci ritraggono, meravigliosamente scolpiti, i fiorentini Ciacco e Filippo Argenti. " Così si esprimeva il Bacci, in una sua <lettura> del canto agli inizi del secolo. Né diverso parere manifestava il Torraca: "Al canto... manca la principale attrattiva di tanti altri... un’ombra, un personaggio, che narri la sua storia tragica o predica al Poeta il futuro, o in altro modo attiri la nostra attenzione, c’ispiri compassione o ribrezzo ".Altro motivo su cui la critica ha variamente insistito, è stato, come rileva il Marti, quello della "frattura, che qui per la prima volta si verifica, tra il chiudersi di una parabola narrativa e il concludersi dell’unità ritmico-poetica del canto". In altre parole: mentre fin qui ad ogni canto corrispondeva la descrizione di un cerchio e quindi una sola tonalità predominante, nel settimo questa unità di argomento e di atmosfera sembra venir meno. Di qui la preoccupazione, in alcuni critici, di trovare il legame segreto che unisce l’episodio degli avari e prodighi alla descrizione della pena degli iracondi, attraverso la digressione sulla Fortuna. Così, ad esempio, il (letto ha voluto vedere in tutto il canto un distacco dell’autore dalle scene cui assiste, "un puro guardare oggettivo", "un essenziale ritrarre, senza volontà di commento", un "gusto grafico preciso, puntualmente descrittivo, di linea ben calcolata". Effettivamente mancano, almeno nell’episodio degli avari e prodighi e nel commento di Virgilio ad esso, quei chiaroscuri che, nei primi canti dell’Inferno, denunciano una partecipazione sentimentale dell’autore alle vicende dei dannati. Manca l’angoscia che vibra in tutto il colloquio con Francesca, mancano perfino espressioni di sdegno come quelle, divenute proverbiali, che la vista degli ignavi suggerisce al sentimento morale del Poeta. Insistere però sulla formula del "puro guardare oggettivo" e sui modi in cui questo guardare si viene di volta in volta concretando, può, tuttavia, fuorviare dall’esatto intendimento dei motivi ispiratori del canto. Dante non è mai in primo luogo un << visivo>>. La straordinaria concretezza che acquistano nella Divina Commedia anche gli spettacoli più allucinanti e irreali, non nasce da un contemplare fine a se stesso, ma da un impegno morale che spoglia le cose dei loro attributi esteriori, per penetrarne il significato ultimo, per darne un giudizio definitivo. Equivale a precludersi la comprensione del suo senso più profondo il voler parlare, a proposito della poesia di Dante, di valori quali pittoricità, spazialità, visività, frontalità dell’immagine, come ha fatto, con risultati del resto apprezzabili, un altro attento studioso della Commedia, il Malagoli, senza cogliere il fuoco nascosto che in questa immagine si esprime, la religione dei valori morali che ad essa conferisce una compattezza mai eguagliata nella letteratura mondiale. Per tornare al settimo canto dell’Inferno, anzitutto il "puro guardare oggettivo", che sembra caratterizzarlo, almeno fino al momento in cui i due viandanti scendono nel cerchio degli iracondi (qui, come ha rilevato il Momigliano, l’atmosfera cambia, s’impregna di spleen, di umor nero), nasce da una posizione di condanna senza attenuanti per coloro che hanno fatto del denaro la loro unica ragione di essere. In secondo luogo, tutta la scena iniziale, dall’incontro con Pluto alla digressione sulla Fortuna, è, come ha rilevato il Marti, il risultato di "un’arte ispirata più da sprezzo polemico che da un gusto realistico obiettivamente distaccato" La rima difficile non meno che la metafora esasperata e grottesca deformano violentemente una realtà che, proprio per questo amaro intervento dell’autore, inteso a trasferirla interamente sul terreno dell’exemplum, del significato etico e religioso, non può essere considerata soltanto oggettiva.


    INFERNO CANTO VIII


    Già prima di arrivare ai piedi della torre, i due poeti vedono accendersi sulla sua sommità due segnali luminosi, ai quali, da molto lontano, appena percettibile, risponde un terzo. Ed ecco avvicinarsi sulla sua antica barca, veloce al par di saetta, il custode della palude stigia, l’iroso Flegiàs, il quale, rivolto a Dante, grida: "Ti ho finalmente in mio potere, anima malvagia!" Virgilio delude questa speranza del nocchiero infernale: egli e il suo discepolo non sono venuti per rimanere nel cerchio degli iracondi, ma solo per attraversarlo. Mentre, sulla navicella di Flegiàs, i due solcano le acque melmose, ecco farsi avanti uno dei dannati della palude, il fiorentino Filippo Argenti, che apostrofa sarcasticamente il suo concittadino. Dante replica con espressioni di duro scherno, suscitando l’ammirazione di Virgilio che si compiace della nobile ira del discepolo. Ma questi non è ancora contento: vuole vedere il suo borioso antagonista immerso nel fango. Attraversato lo Stige, i due pellegrini sbarcano ai piedi delle mura di ferro rovente che cingono la città di Dite. Qui, più di mille seguaci di Lucifero si oppongono minacciosi all’ingresso di colui che, ancora in vita, impunemente è entrato nel regno dei morti. Il poeta latino esorta Dante a non perdersi d’animo e si reca a parlamentare con i diavoli. Ma poco dopo ritorna con i segni della sfiducia sul volto: la sua missione non è riuscita. Solo qualcuno più forte di lui potrà aprire la porta che immette nei cerchi formanti il basso inferno.


    Introduzione critica

    Dante scrittore drammatico: lo scontro frontale, da uomo a uomo, non è mai avvenuto nei primi sette canti. La drammaticità è già apparsa nel linguaggio, nei paesaggi sconvolti e tempestosi, negli atteggiamenti monumentali o in movimento dei grandi mostri, dalle tre fiere a Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, ma era una drammaticità subito bloccata: e nella nostra memoria sono rimasti enormi gesti fissati per l’eternità, gonfi della stessa eternità del male. Gli incontri di Dante con i dannati (Francesca, Ciacco) hanno avuto finora un carattere colloquiale, e il dramma è rimasto all’interno di ciascuno, solo specchiandosi nel pellegrino che - viva presenza dell’umano, del tempo - porta nella cupa immutabilità di un male atemporale l’eccezione di un rinnovellato dolore umano. Ma nel canto ottavo Dante trova per la prima volta nel dannato (Filippo Argenti) un antagonista, e nasce lo scontro violento, un duello di parole che rischierebbe, se non ci fosse l’intervento della ragione (Virgilio), di trascendere a vie di fatto. Qui la drammaticità si dilata, investe tutti gli elementi della composizione, con precisa coerenza: il linguaggio si fa più teso, pronto alle spezzature, vibrante; il paesaggio, la scena sono percorsi da misteriose, appena avvertibili presenze. Sul ribollire iroso e a un tempo pigro (il torpore morale, l’accidiosa tristezza dell’iracondia) della palude dello Stige, sulla distesa buia a perdita d’occhio dove i dannati, per la prima volta in silenzio (l’ira è senza voce al suo parossismo), si sbranano gli uni con gli altri in un’orrida mischia nel fango, ha luogo, da posizioni elevate, da torri isolate di guardia, una segnaletica militare che prelude al combattimento. Fiamme che s’accendono, e da lontano qualcuno risponde. E subito, da grevi sipari di fumo, rapidissimo sbuca lo scafo piccolo e leggiero di Flegiàs, colui che per irosa vendetta contro Apollo ne aveva incendiato il tempio a Delfi, distruggendo in sé il rispetto per la divinità e causando così la propria rovina. Allo scontro fra i simboli, fra Virgilio, ragione testimone della Grazia e portatrice della parola d’ordine di Dio, e i demoni, figurazioni disumane del peccato, si affianca lo scontro fra gli uomini, Dante e i peccatori, da questi simboli guidati o fuorviati. Qui l’apparizione del dannato ha qualcosa di pauroso e di repulsivo (l’Argenti è tutto grondante di fango), ma, pur nella sua pesantezza, presenta una cupa aggressività (dinanzi mi si fece). E il battibecco divampa, concentrato, per la potenza ellittica dell’arte di Dante, in poche battute cariche di tutte le sfumature di una violenta rissa verbale: l’incalzare dei monosillabi, l’ "incipit" arrogante, la risposta che scatta crudele e secca, il dileggio spietato, la maledizione, lo smascheramento cattivo. Risse verbali, battibecchi, contrasti: variati nei toni e nelle situazioni riempiono la Commedia, e sono segno dello spirito violento di Dante e della sua epoca. Rissa verbale di strada o di palazzo, contrasto ad alto livello fra magnanimi rivali politici o smargiassata triviale di béceri portano la vita nell’al di là, o meglio annullano di colpo l’inferno, sostituendo al nero e ai fuochi dell’oltretomba le vie di Firenze. L’ira di Dante per l’Argenti, che è stata ritenuta eccessiva, non sufficientemente motivata, fino a dare l’impressione di una non completa riuscita sul piano estetico, è invece l’ira vendicativa - dove vendetta non è, come nota il Tommaseo, odio, ma rivendicazione secondo giustizia - contro l’insulto che fa, alla ragione e alla misura dell’uomo, la pervicacia nella vuota, stolida, volgare arroganza, nella superbia senza motivo e gonfia di sé, che non ha, né può avere, un solo momento di ripensamento, di meditazione, di umana ragionevolezza. Dante si adira proprio di fronte ai pericoli morali nei quali l’ira può far incorrere; né dobbiamo dimenticare che l’oltretomba dantesco vuol essere anzitutto la traduzione oggettiva, in simboli, personaggi, situazioni, di una problematica morale vissuta, quasi un immenso involucro speculare in cui il poeta, l’uomo, veda ovunque riflesse le immagini ingigantite dei propri difetti e delle proprie virtù. Alla motivazione morale si aggiunge, a rendere più aspro lo scontro, quella personale e storico-politica. Filippo appartiene ad una famiglia a Dante nemica, ed egli la bollerà, dall’alto del paradiso, per bocca del nobile suo avo Cacciaguida, come oltracotata schiatta, feroce coi deboli, vile coi forti e coi ricchi, sorta di ceppo mediocre (picciola gente). Ma nella Commedia il fatto individuale tende sempre a chiarirsi in un giudizio e qui, fra l’altro, si legittima nell’osservazione solo in apparenza pleonastica ed esornativa: quanti si tengon or là su gran regi ... Dante gode dello strazio che i compagni di pena fanno dell’Argenti; in esso egli può vedere un esempio della sorte riservata dalla giustizia divina ai superbi. Dietro l’Argenti si schiera così tutto un gruppo, una categoria umana, e da ciò la figura del dannato acquista una dimensione significante che la riscatta da ogni sospetto di diminuzione individualistica e aneddotica. Nella seconda parte del canto la drammaticità si continua nel paesaggio, con la città di ferro incandescente e le torri diaboliche, somiglianti ai minareti degli infedeli. Davanti alla fortezza del male, agli stormi delle sue fulminee, innumerabili sentinelle precipitate dall’alto, alla malizia che qui, in Dite, rende più complesse, intricate e perverse le passioni che vi sono punite, si ripropongono, come nei primi canti, ma con maggiore maturità artistica, il dubbio, la perplessità del pellegrino. Neppure la ragione (Virgilio) ha potere contro il peccato


    INFERNO CANTO IX

    Dopo essere tornato presso Dante, Virgilio riacquista la propria serenità e incoraggia il suo discepolo ricordandogli di essere già disceso una volta fino al fondo dell’inferno. All’improvviso, sull’alto delle mura fortificate di Dite compaiono le tre Furie, mostri con sembianze di donna e chiome formate da un intrico di serpenti. Esse manifestano la loro ira per la presenza dei due poeti, dilaniandosi con le unghie, percuotendosi e gridando in maniera terrificante. Ma da sole sono impotenti a punire il vivo che ha osato violare la dimora della morte; per questo invocano a gran voce Medusa, la Gorgone che ha il potere di trasformare in pietra chiunque la guardi. Virgilio invita il suo discepolo a volgere le spalle, ed egli stesso gli copre gli occhi con le mani. Ma da lontano si preannuncia ormai l’arrivo del messo celeste. Lo precede un fragore d’uragano, mentre davanti a lui, che avanza sereno sulla palude stigia senza nemmeno bagnarsi le piante dei piedi, i dannati, in numero sterminato, si danno alla fuga. Virgilio esorta Dante ad inginocchiarsi, ma l’angelo non degna i due pellegrini di uno sguardo: altre preoccupazioni sembrano dominare il suo animo. Giunto davanti alla porta della città di Dite, la tocca con un piccolo scettro ed essa si apre senza difficoltà. Prima di ripercorrere il cammino per il quale è venuto, il messo rimprovera i diavoli per l’opposizione ai voleri dell’Onnipotente e ricorda la sorte toccata a Cerbero per aver voluto opporsi ad Ercole che era disceso negli Interi. Allontanatosi l’angelo, i due viandanti penetrano nell’interno della città: davanti a loro si apre una grande pianura cosparsa di tombe, che richiama alla memoria di Dante le necropoli romane di Arles e di Pola. Ma qui i sepolcri, tutti aperti, sono arroventati dalle fiamme. In essi si trovano le anime degli eretici. I due poeti si incamminano lungo un sentiero che corre tra le mura e le tombe infuocate.

    Introduzione critica

    I canti ottavo e nono ripropongono le perplessità, i dubbi, i terrori dell’anima di fronte al peccato, una situazione analoga, cioè, a quella in cui Dante si è trovato alla uscita dalla selva. Anche qui tema dominante è quello della umana insufficienza; ma, mentre nei due canti iniziali l’aiuto divino si era concretato in un uomo, Virgilio, poeta e saggio, espressione al tempo stesso di un modello insuperato di civiltà (l’impero romano) e della ragione eterna, pura di specificazioni storiche, qui l’intervento sovrannaturale è assai più diretto e miracoloso: nella persona dell’angelo è infatti sensibilmente prefigurata la Grazia. Ora infatti che l’inferno "alto" , luogo di pena per coloro che peccarono passionalmente, quasi per una sovrabbondanza della forza vitale, ha finito di dare al peregrinante i suoi insegnamenti, ora che alla vista del Poeta appare la fortezza che racchiude il male più grave, l’umanissimo Virgilio, dolce padre, amico e maestro premuroso, guida fin qui sicura, rivela egli stesso la propria imperfezione, i limiti da Dio assegnati all’uomo. Il Vossler ha opportunamente diviso il grande dramma religioso che si svolge dalla metà del canto ottavo fin quasi al termine del nono in quattro atti. Primo atto: l’anima, in quanto non definitivamente acquisita al male, è respinta dai diavoli (Dante è ancora in vita, ha la possibilità di redimersi, non è morto al richiamo della Grazia). Secondo atto: la ragione (Virgilio) tenta di indurre la malizia a riconoscersi sconfitta; ma questa, avvertito il pericolo, fugge. Terzo atto: il male, al fine di prevalere su colui che vuole smascherarlo, evoca le sue forze più pericolose: non le seduzioni esterne alle quali la ragione saprebbe resistere, bensì le angosce interne, i rimorsi (le Furie). L’anima, se assistita dalla ragione, non ha motivo di temerle (Virgilio invita Dante a guardare le Furie e gliele nomina). Essa deve però respingere quella che del male è la tentazione più nefasta, la disperazione (Medusa). Quarto atto: a sconfiggere il male deve intervenire - dopo che l’anima e la ragione si sono impegnate ed hanno compiuto i loro tentativi di resistenza - la grazia divina (il messo celeste). Il nono è fra i canti più ricchi di riferimenti a simboli, leggende e figurazioni della mitologia pagana. Il De Sanctis ha detto che Dante se ne serve come di "materiale di costruzione", nello stesso modo in cui i cristiani del Medioevo si servivano di colonne e ruderi romani per le loro chiese. Ma questa affermazione va in parte corretta: non si tratta di semplice "materiale". Sia pure strappati dal loro contesto storico, gli elementi della cultura pagana conservano nella Commedia qualcosa dei loro antichi significati. In tutto il poema è, infatti, continuamente ribadita la continuità etica e culturale fra mondo precristiano e mondo cristiano, non diversamente da come in San Tommaso e in Sant’Alberto Magno una medesima linea di pensiero congiunge, gerarchicamente graduandole, natura e rivelazione, filosofia greca e Sacra Scrittura, vita morale e santità. Questa fortissima esigenza unitaria, per la quale nessun aspetto del reale viene respinto (la gloria di Dio risplende, per quanto in una parte più e meno altrove, ovunque nell’universo, come è detto nella terzina di apertura del Paradiso), spiega come, per Dante, anche negli dei falsi e bugiardi, assunti in funzione simbolica, brilli qualche idea del divino.La riabilitazione del mondo classico sarà compiuta esplicitamente, senza giustificazioni religiose, dagli umanisti del Quattrocento, ma qualcosa del loro sentire si è voluto scorgere anche in Dante e si è parlato (Sapegno) della "fiducia ingenuamente preumanistica dello scrittore nella validità poetica, e quindi anche simbolica e immediatamente persuasiva, della cultura letteraria consegnata ai grandi poemi classici". Ma il richiamo alle favole mitologiche nella Commedia ha una funzione opposta a quella che svolgerà nella cultura umanistica: la mitologia non viene infatti accolta nell’universo poetico di Dante in quanto elemento evasivo, di fuga dal reale, di nobile distacco dalla condizione del dolore, ma dal Poeta è volta a confermare, oltre ogni differenza di linguaggio e cultura, una verità che non ammette né restrizioni né deroghe né accomodamenti: quella dell’impegno totale e responsabile dell’uomo nel mondo. Tuttavia, se la grande rappresentazione drammatica davanti alla porta di Dite riflette indubbiamente una concezione allegorica, essa la traduce poi in scenografia ed azione. Come le due distese orizzontali, la nera maremma del fango e la fiammeggiante necropoli dell’eresia, ingigantiscono la verticalità delle mura - enormi nel desolato riverbero, quasi di ferro appena uscito dal fuoco - della città del male (un dato reale, un paesaggio medievale urbano, vallo, torri, porte, sentinelle, su cui l’anima fa incombere l’ombra del giudizio di Dio), così due zone di silenzio (i dannati, le loro pene, le loro espressioni di dolore sono passati in secondo piano; l’attenzione del Poeta si volge tutta al "mistero" che ha luogo davanti ai suoi occhi e ha per oggetto il suo stesso destino) isolano nella sua unicità esemplare la scena del decisivo confronto tra le forze del male e il ministro del volere di Dio. L’arrivo del messo si preannuncia sul piano dell’analogia fin dagli inizi del canto ottavo, allorché fuochi nella notte, improvvisi segnali di guerra, introducono una nuova dimensione, allucinata e febbrile, nel poema. Ma, nella sua compostezza plastica e morale, l’angelo mostra di sdegnare le umane trepidazioni. Mentre infatti le forze del bene si misurano con quelle del male in un clima di epopea e intorno all’anima umana si affrontano come eroi dei poemi dell’antichità, Dante nei suoi dialoghi con Virgilio, pieni di reticenze, di curiosità impacciata, dà voce all’umana viltà, nota ai confini del comico, sempre presente, anche nel cuore della tragedia, nella complessità della vita.


    INFERNO CANTO X


    Entrati nella città di Dite, i due poeti si avviano per un sentiero che corre fra le mura e quella parte della necropoli degli eretici ove sono puniti gli epicurei, negatori dell’immortalità dell’anima. Improvvisamente, da uno degli avelli infuocati, una voce prega Dante di fermarsi: è quella del capo ghibellino Farinata degli Uberti che, dal suo modo di parlare, ha riconosciuto nel Poeta un compatriota. Dante si avvicina al sepolcro nel quale Farinata sta in piedi, visibile dalla cintola in su. Tutti i pensieri di questo dannato sono rivolti al mondo dei vivi, a Firenze, al suo partito: egli vuole anzitutto sapere se Dante appartiene a una famiglia guelfa o ghibellina. Non appena il Poeta gli rivela il nome dei suoi avi, si vanta di averli per ben due volte debellati. Dante ribatte che essi non furono vinti, ma solo mandati in esilio e che dall’esilio seppero tornare sia la prima sia la seconda volta, laddove gli Uberti furono banditi per sempre dalla città. A questo punto il dialogo è interrotto dall’angosciosa domanda che un altro eretico, egli pure fiorentino, Cavalcante dei Cavalcanti, rivolge a Dante: " Se la tua intelligenza ti ha valso il privilegio di visitare, vivo, il regno dei morti, perché mio figlio Guido non è con te?" Il Poeta indugia nel rispondere e Cavalcante, credendo che il figlio sia morto, ricade, senza una parola, nel suo sepolcro. Riprende a parlare Farinata, che vuole sapere il motivo di tanto accanimento contro la sua famiglia. Dante gli fa il nome di un fiume - l’Arbia - le cui acque furono arrossate dal sangue dei Fiorentini che nel 1260 morirono combattendo contro i fuorusciti ghibellini comandati appunto da lui, Farinata degli Uberti: e questi ricorda allora, a suo merito, come fu lui solo, dopo quella sanguinosa giornata, ad opporsi a viso aperto al progetto, avanzato dagli altri ghibellini, di radere al suolo la vinta Firenze. L’episodio si conclude con la spiegazione che Farinata fornisce a Dante sulla conoscenza che i dannati hanno del corso degli eventi terreni. I due pellegrini riprendono quindi il loro cammino dirigendosi verso la zona centrale del cerchio.


    Introduzione critica

    Come il quinto, anche il canto decimo dell’Inferno è tra i più celebri della Divina Commedia. Per ricchezza di svolgimenti drammatici, per il rilievo che vi assume il personaggio di Farinata degli Uberti, esso non poteva non imporsi all’attenzione di critici e lettori. Farinata è un personaggio di così viva e appassionata umanità da eludere ogni schema critico. Due righe dell’opera dedicata alla Divina Commedia dal Vossler illuminano con particolare acume la tragedia di questo magnanimo antagonista di Dante: "Come a Francesca il suo amore, a Farinata è dolce tormento e aspra felicità la coscienza di sé". Ma la maggior parte dei critici ha veduto in lui, sotto la suggestione della presentazione statuaria che ne fa Dante sia all’inizio dell’episodio (dalla cintola in su tutto ‘l vedrai.... ed el s’ergea col petto e con la fronte com’avesse l’inferno in gran dispitto), sia dopo il patetico intermezzo di Cavalcante (non mutò aspetto, né mosse collo, né piegò sua costa), nient’altro che`l’espressione di un orgoglio disumano, di una forza d’animo tanto più conseguente quanto meno sensibile ai valori positivi, di purificazione e riscatto, attribuiti dal Cristianesimo alla sofferenza. Il disprezzo, la sublime impassibilità: questi i tratti più salienti che, nella tradizione critica di quasi un secolo, caratterizzano il grande eretico del canto decimo.Egli è, da questo punto di vista, anzitutto il condottiero, il capoparte indomito e fazioso: esula completamente, dal suo modo di concepire le cose, l’idea che possano esistere valori più alti di quelli che nella lotta senza quartiere trovano la loro espressione più coerente e brutale. Non per nulla il De Sanctis nel suo saggio su Farinata inizia con un esplicito riferimento a Napoleone: "... perché Kléber imponeva con la statura, Napoleone comandava con l’occhio, e l’uno parlava a’ sensi, l’altro ammaliava l’immaginazione ".Perfino il Croce, che ha sempre esercitato, nei confronti del più acceso ed eloquente pensiero romantico, una funzione moderatrice e di controllo, imposta in maniera sostanzialmente romantica la sua interpretazione dell’episodio di Farinata. Per lui il vincitore di Montaperti è anzitutto "il magnanimo. che, vero eroe da epopea, è tutto e soltanto il guerriero, il combattente... Ogni altro affetto gli è estraneo: ai mali del presente si fa superiore... degli amori e dolori umani non cura..." In realtà una siffatta definizione appare insufficiente, quando si voglia cogliere, in questo episodio, quella interiore problematicità, presente in tutti i personaggi della Commedia, che costituisce il vitale fermento di ogni concezione tragica. Solo se riusciamo a scorgere, oltre l’apparenza statuaria, il dibattito di Farinata con se stesso, la contraddizione che lo travaglia (fedeltà al partito, amore di patria), possiamo inoltre intendere come - più che altro apparente sia il contrasto fra il Dante pieno di rispetto per questo suo concittadino e il Dante che lo colloca fra i dannati. A questo proposito occorre esaminare un altro giudizio del De Sanctis: "il tipo di Farinata è ancora troppo semplice per l’uomo moderno. C’è lì dentro una stoffa ancora epica dell’uomo, non ancora drammatica. Manca l’eloquenza, manca la vita interna dell’anima". Dove il De Sanctis parla dei personaggi di primo piano della Commedia, il riferimento a Shakespeare o al dramma romantico è sempre implicito. In realtà i personaggi danteschi sono assai più complessi di quanto a volte lasci supporre la rigidità stilizzata di certi loro atteggiamenti. Così, nell’episodio di Farinata, una semplice sospensione dubitativa, nel verso alla qual forse fui troppo molesto, contiene già tutto un giudizio che l’eroe dà di se stesso. Questo giudizio non ha nulla di schematico, proprio perché vissuto e sofferto nell’atto stesso in cui si formula, ma è presente nella coscienza di Farinata come una insopprimibile realtà e vanifica dall’interno tutta la sua monumentale autosufficienza. " Dante sente fortissimo il fascino - come felicemente scrive il Montanari - del combattente impegnato totalmente nella lotta" e celebra in Farinata "l’uomo che si dà completamente a un’idea con totale devozione", ma occorre non dimenticare che, nell’universo morale della Commedia, la disinteressata espressione della propria soggettività non basta a riscattare le azioni di un uomo. La "coerenza con se stessi", inappellabile istanza dello stoicismo disincantato, supremo rifugio di ogni relativismo romantico, non può essere, per un cristiano, un criterio accettabile in sede di valutazione etica. Questo è il motivo per il quale Dante, pur esaltandone la figura, non solo colloca Farinata fra i reprobi, ma induce questo orgoglioso a manifestare il proprio dubbio sulla validità delle scelte da lui operate in terra. Un antico commentatore della Commedia dava di Farinata questo ritratto: "Seguace di Epicuro, non credeva ci fosse altro mondo all’infuori di questo; perciò si sforzava in ogni modo di primeggiare in questa vita breve, non sperando in un’altra migliore". Ebbene, proprio nell’aver egli rifiutato di subordinare le ragioni del contingente a quelle dell’eterno, concependo la lotta politica come fine a sé, senza legarla a quelle norme, che - come Dante stesso ha inteso mostrare nella Monarchia - la redimono in una teleologia religiosa, sta il senso più profondo della sua ribellione a Dio. In lui il Poeta ha veduto, al di là dell’eroe, il colpevole, colui che nella lotta fra il bene e il male ha definitivamente perduto, colui che, dopo essersi appartato in un altero isolamento, sommessamente proclama la propria imperfezione (noi veggiam, come quei c’ha mala luce) e indirettamente afferma, attraverso l’esempio del proprio dolore, la gloria di Chi solo ha in sé le fondamenta del proprio essere e nel quale mondo e umana coscienza del mondo trovano il loro compimento.


    INFERNO CANTO XI


    Sul margine interno del sesto cerchio, al riparo della tomba infuocata di un seguace dell’eresia monofisita (Anastasio II), i due viandanti sono costretti, a causa dell’orribile odore che si sprigiona dal baratro aperto al loro piedi, ad una sosta forzata. Virgilio ne approfitta per spiegare al suo discepolo l’ordinamento dei tre cerchi infernali che deve ancora visitare.
    Nel settimo cerchio sono puniti i peccatori per violenza contro il prossimo, contro se stessi e contro Dio, nell’ottavo e nel nono quelli che si sono serviti della frode propriamente detta (contro chi non si fida) e del tradimento (frode contro chi si fida) per raggiungere i loro fini. Poiché Dante desidera sapere il motivo per cui i dannati dei primi cinque cerchI sono fuori delle mura di Dite, Virgilio gli ricorda la partizione aristotelica del male in tre categorie (incontinenza, malizia e matta bestialità): nell’alto inferno si trovano appunto gli incontinenti, coloro cioè che non seppero serbare la misura in azioni
    di per sé non riprovevoli, mentre all’interno della città di Dite si trovano coloro il cui peccato ha avuto per fine la deliberata violazione di una legge.
    Dante si dichiara soddisfatto della spiegazione del maestro, ma lo prega di chiarirgli perché il peccato d’usura offende, ancor prima che il prossimo, Dio e l’ordine da Dio Imposto alle cose del mondo. Virgilio gli richiama alla memoria il passo della Fisica di Aristotile, ove il lavoro umano è definito una imitazione della natura e quello della Genesi, in cui Dio impone all’uomo di lavorare. Poi lo esorta a riprendere il cammino verso il dirupo per il quale si scende dal sesto al settimo cerchio.


    Introduzione critica

    L’interesse di questo canto è prevalentemente dottrinale: infatti, attraverso le parole di Virgilio, Dante ci descrive l’ordinamento dell’inferno e chiarisce alcuni punti ad esso relativi, come quello della differenza fra peccati d’incontinenza e peccati di malizia o quello riguardante l’essenza dell’usura, alla luce del pensiero di Aristotile e della Bibbia. E’ singolare - ma il contrasto insito nella situazione non rivive in una prospettiva fantastica; rimane un contrasto che potremmo definire soltanto strutturale - che la spiegazione dei criteri della giustizia divina abbia luogo, ad opera di un pagano, Virgilio, al riparo dell’avello destinato a punire l’eresia di un pontefice. Questa singolarità ha una sua motivazione profonda, per quanto si tratti, appunto, di una motivazione inerente più al mondo degli interessi filosofici di Dante che a quello dei suoi affetti. Il tema del peccato di papa Anastasio, vigoroso nella sua sommarietà, è appena accennato.

    Come già nel canto terzo la porta dell’inferno, anche qui un oggetto inanimato parla in prima persona. L’inversione sintattica - Anastasio papa guardo - col verbo spostato, in posizione di energico rilievo, alla fine dell’endecasillabo, colora di grottesco la vicenda di questo pastore della cristianità che - stando alla leggenda accolta dal Poeta - si rifiutò di credere nella natura divina, oltre che umana, del Redentore.

    Più profondi accenti avrà la polemica contro i vicari corrotti di Cristo in altri canti del poema e ad esempio, nell’ambito della prima cantica, nella bolgia dei simoniaci o in quella dei consiglieri fraudolenti. Ma l’interesse del canto, e del suo esordio in particolare (la contrapposizione della ragione naturale, esclusa dalla Grazia: Virgilio, a chi dalla Grazia si è deliberatamente allontanato: Anastasio), sta nel fatto che la spiegazione, affidata al poeta latino, dell’ordine morale e topografico dell’inferno si fonda quasi esclusivamente su argomenti razionali, accessibili quindi anche a chi sia ignaro della Rivelazione. La divina giustizia - questo è il convincimento del Poeta - punisce servendosi di un metro che è quello della ragione naturale; la sola ragione basta quindi, se non ad indicarci la via della salvezza (il peccato originale è per essa mistero insondabile), a non farci cadere in quelle colpe che hanno la loro origine nell’umano discernimento e che sono punite nei cerchi infernali successivi al limbo. Se è vero che il pensiero più maturo di Dante rappresenta un superamento della posizione enunciata nel Convivio (esaltazione della ragione come suprema facoltà umana; riduzione del sapere al sapere razionale, alla filosofia), per esso la ragione naturale predispone alla Grazia, la parola di Aristotile spiana il cammino al messaggio dei Vangeli. Nulla è infatti più errato che voler introdurre, con mentalità antistorica, una qualsiasi scissione, nell’universo della Commedia, fra l’umano e il divino, poiché per Dante, ove non si allontani volontariamente dal fine per il quale è stato creato, l’uomo non può che confermare il senso dell’operato di Dio, così come Dio è il garante assoluto della validità dei significati che l’uomo ritrova nel mondo.

    Dal punto di vista formale, i chiarimenti che in questo canto Virgilio ci impartisce sulla struttura fisica e morale dell’inferno esprimono il fermo possesso che il discente ha della sua materia: la divisione per argomenti si rispecchia perfettamente nella scansione isocrona e riposata delle terzine. La sua esposizione tuttavia, benché didatticamente insuperabíle, ci lascia inappagati. Raggelato in formule e definizioni, il miracolo della razionalità divina che rivive In quella di noi tutti non riesce nemmeno a proporsi. Qui la verità non rampolla dal contrasto di opposte ragioni, come avverrà in alcune delle più ardue, ma anche più accese e vibranti pagine della terza cantica, ma si configura come un bene inerte, oggetto di mnemonico apprendimento, sotto le specie della " nozione " e della "classificazione". Mancano il dramma del pensiero nel suo farsi, l’ansia del sapere che si conosce limitato e si tende nel presagio di un sapere più alto, tipici della didascalica del Paradiso e che questa didascalica traducono in stati d’animo: umana speranza e incertezza, affanno per coloro che si sviano dietro false immagini di bene, contemplante beatitudine interiore. Il Momigliano ha parlato, per questo canto, di "poesia che aleggia nell’aula d’un maestro della Scolastica ", ma, in questa caratterizzazione, peraltro felice, il termine " poesia " è senz’altro di troppo.

    Dove invece la poesia si riscatta, è negli ultimi quattro versi del canto. Al termine del discorso di Virgilio c’è come un senso di stanchezza per tanto scolasticismo, di insofferenza (messa in luce, tra l’altro, dall’incalzare delle causali : ché i Pesci... e ‘1 Carro... e ‘1 balzo) per tanto indugio nelle parole: il mistero del creato riaffiora, e con esso la vita, nell’immagine delle silenti geometrie notturne che lassù, nel mondo dei vivi, parlano all’uomo. Ma, per il Poeta, questo mistero è già fede, miracolo, conoscenza. Il linguaggio del firmamento è lo stesso linguaggio degli uomini: il lento ascendere della costellazione si contrae in un significato a tutti accessibile, diventa il " guizzare " dei Pesci, mentre una semplice somiglianza fonica (Carro - Coro) porta sul piano del sacro - dove nessun etimo appare convenzionale e i nessi fra parole sono rivelatori di una parentela fra le cose - il rapporto che si istituisce tra un’altra costellazione e un vento. La creazione è, per il credente, a noi prossima, penetrabile alle nostre domande, rivelatrice della nostra somiglianza con Dio. Un poeta può scoprire allora in essa rispondenze più intime con la nostra soggettività di quelle dedotte da una scienza opaca alle voci del dolore e al proiettarsi dell’uomo, nel tempo, verso il suo termine eterno.


    INFERNO CANTO XII


    I due poeti scendono per un dirupo dal sesto al settimo cerchio. Qui trovano, a sbarrare il cammino, il frutto dell’innaturale connubio di Parsifae con un toro, il Minotauro. Nel vederli, accecato dall’ira, il mostro morde se stesso, poi, quando ode rievocati da Virgilio la propria uccisione ad opera di Teseo e il tradimento della sorella Arianna, saltella qua e là come toro colpito a morte. I due ne approfittano per scendere ai piedi della frana. Virgilio spiega a Dante come essa sia la conseguenza del terremoto che precedette la discesa di Cristo nel limbo, allorché l’intero universo sembrò per un attimo volersi nuovamente convertire nel caos originario. Il settimo cerchio è tutto occupato da un fiume di sangue bollente, in cui sono immersi i violenti contro il prossimo. A guardia dei dannati sono posti i centauri. Armati di arco e di frecce, come quando, in terra, solevano andare a caccia, hanno il compito di impedire alle ombre di emergere dal sangue più di quanto la loro pena comporti. Il centauro Nesso scambia i viandanti per due anime e chiede loro a quale pena siano destinati. Ma Virgilio vuole parlare soltanto con Chirone, il leggendario maestro di Achille; giunto in sua presenza, gli fornisce esaurienti spiegazioni sul loro viaggio nel regno delle ombre: " Sì, Dante è vivo e devo mostrargli l’inferno; l’itinerario che percorre è necessario alla salvezza della sua anima; dall’alto dei cieli un’anima beata scese per affidarmi l’incarico di guidarlo nel cammino; non siamo anime di peccatori ".

    Poi chiede a Chirone una guida che mostri loro il punto dove si può guadare il fossato, e il saggio centauro designa a questo incarico Nesso. A mano a mano che i tre avanzano lungo la riva, Nesso elenca i dannati che sono immersi nel sangue: dei tiranni sono visibili soltanto i capelli, degli omicidi l’intera testa, dei predoni la testa e il petto. Giunti al guado, i tre passano sulla riva opposta; poi Nesso, adempiuto il suo compito, torna indietro.


    Introduzione critica

    In questo canto l’attenzione del Poeta non si ferma sullo spettacolo del castigo infernale (l’accenno al fiume di sangue non va oltre la menzione generica - riviera del sangue, bollor vermiglio, bulicame - alla quale fa eco il caricaturale bolliti) o sulla caratterizzazione di un dannato: protagonisti ne sono i centauri, custodi del primo girone del cerchio dei violenti. Ad essi si contrappone, sul piano simbolico, una figura anch’essa per metà umana e per metà ferina la quale, tuttavia, nella rielaborazione in senso etico e religioso dei miti antichi operata dal Poeta, ne rappresenta la più diretta antitesi: il Minotauro.

    Posto inutilmente (giace inerte, all’improvviso la sua ira lo colpisce - se stesso morse - prima ancora che Virgilio gli parli) a guardia dell’ingresso al cerchio, il Minotauro appare animato da una vitalità innaturale, come in un presagio di morte. Le parole che Virgilio gli rivolge sono di scherno feroce: apparentemente intese a placarlo, mirano in realtà a fargli perdere ogni capacità di discernimento, sono il colpo mortale che la ragione infligge alla bestialità di null’altro armata che del proprio furore. Nell’immagine del toro saltellante il crepuscolo della coscienza è ritratto con attenzione divertita, senza alcun indugio nel descrittivo: come sempre in Dante, attraverso la notazione realistica si fa strada il giudizio morale.

    La figura del Minotauro è infatti, non meno di quella degli altri custodi infernali, anche un simbolo: rappresenta la matta bestialità, il progressivo ottenebrarsi della chiarezza razionale nel caos degli istinti. La brutale, scena del macello si inquadra - trovando in essa il suo compimento ideale, la suprema definizione del suo significato - in una cornice mitologica. Fin dal suo primo apparire Dante riconosce, in quella massa pesantemente adagiata, l’infamia di Creti, quasi l’infamia per antonomasia. L’atteggiamento esteriore del mostro, la sua animalità, torpida ma non rassegnata, ne denunciano, senza possibilità di equivoci, l’esatto collocamento nella gerarchia degli esseri e dei valori.

    Cosi, anche in questa figura che esprime, come tante altre della Commedia, un’interpretazione cristiana dei miti del paganesimo, passato remotissimo e attualità della cosa vista, tradizione letteraria (Ovidio) ed esperienza diretta si compongono in un rapporto tanto più intimo e persuasivo, quanto più rispondente ad un intento di esemplificazione e di ammaestramento.

    Mentre il Minotauro rappresenta il degradarsi dell’umano nell’animalità, i centauri simboleggiano il processo inverso, l’armonico dominio della volontà cosciente sulle passioni, il contemperamento della forza con la saggezza. Chirone è ricordato come il maestro di Achille (e nel verbo nodrì, come ha osservato il Mazzoni, sono affettuosamente riassunte le paterne sollecitudini di quell’insegnamento), Nesso prende il posto di Virgilio nell’illustrare a Dante la topografia fisica e morale dei girone e, se all’inizio il poeta latino gli ricorda, in tono di rimprovero, le funeste conseguenze della sua impazienza, la presentazione che ne fa poi al discepolo appare elogiativa. Un verso come che morì per la bella Deianira potrebbe inserirsi senza stonare nell’enumerazione, fatta da Virgilio (Inferno V, 61-69), dei generosi che perdettero la vita per amore. Come nelle favole, le qualità della donna amata si compendiano in questo endecasillabo nel solo attributo bella. Basta questa sola qualità perché l’uomo, animo nobile, eroe, quasi gioisca di offrire attraverso il proprio sacrificio una prova che si adegui all’infinità del suo amore. Ma il centauro, a differenza dei morti per amore del quinto canto, seppe predisporre, morendo, lo strumento della propria vendetta (il clima dell’evocazione delle donne antiche e dei cavalieri prepara la tragedia; i centauri si inquadrano invece in una prestigiosa aura di leggenda). L’attenzione di Dante è rivolta soprattutto a Chirone, ritratto al centro di un gruppo scultoreo, in cui sembra quasi rivivere il ritmo luminoso e solenne dei rilievi di Olìmpia.

    Il grande centauro riflette, il suo sguardo si astrae da ogni oggetto circostante, il suo pensiero si ripiega su se stesso: al petto si mira. Quindi, prima dì parlare, si pettina la grande barba, con la cocca di una freccia. Nei centauri non troviamo traccia di quell’automatismo feroce, di quella spaventosa cecità spirituale che contraddistinguono, gli altri custodi infernali.

    Anche Caronte, la più umana di queste figure, appare demoniaco se paragonato ai saettatori del settimo cerchio. Questi, "più solenni che selvaggi, fanno pensare alla primitiva umanità eroica. del Vico" (Momigliano), a quel mitico periodo agli albori della storia in cui l’uomo, emergendo a poco a poco, dalla barbarie, ma di questa conservando inalterata la schiettezza, seppe creare le prime forme del vivere civile. Il Minotauro è invece l’espressione di una fase anteriore, nella cronologia dei miti: quella in cui l’uomo, non ancora soggetto alle leggi, credeva di poter impunemente sfidare la volontà degli dei e l’ordine della natura.

    Nell’ultima parte del canto, occupata da un elenco di tiranni e di predoni, la storia, si sostituisce, come fonte d’insegnamento morale, alla leggenda. La figura dei centauro Nesso è qui quella di un pedagogo diligente e impersonale. Ma le sue parole riflettono, in due punti almeno del suo discorso, un’intensa partecipazione. Là dove delineano, fortemente rilevate in campo rosso (il sangue da essi versato), le capigliature di Ezzelino da Romano e di Obizzo d’Este, non un cenno è fatto alle azioni nefande di questi tiranni. Solo un nero e un giallo s’imprimono nella nostra mente, accostati con quel gusto del colore pieno, compatto, prezioso, che si ritrova nella pittura romanica. Poi, dopo alcuni versi, alto sul fluire del Tamigi, isolato nella maestà della morte, il cuore di un innocente assassinato in una chiesa.


    INFERNO CANTO XIII


    I due poeti si addentrano nel secondo girone del settimo cerchio, in un bosco di piante secche, contorte e spinose, abitato dalle mostruose Arpie, uccelli dal volto umano. Non si vedono anime di peccatori, ma se ne odono i lamenti. Esortato dal maestro, Dante stacca un ramoscello da un grande pruno e questo, attraverso la ferita, incomincia a sanguinare e a parlare. Virgilio scusa il suo discepolo ed invita l’anima imprigionata nell’albero a rivelare il suo nome. E il tronco parla: fu Pier delle Vigne, ministro dell’imperatore Federico II; si uccise perché, ingiustamente accusato dai cortigiani invidiosi del suo ascendente sul sovrano, era caduto in disgrazia. Davanti a Dante, che in terra potrà riabilitarne la memoria, giura che mai tradì la fiducia in lui riposta dal suo sovrano. Poi narra come le anime dei suicidi, dopo essere cadute nella selva, trasformatesi in piante, vengano crudelmente dilaniate dalle Arpie.

    Dopo il Giudizio Universale i corpi di questi peccatori saranno appesi ciascuno all’albero nel quale è incarcerata la loro anima.

    Il discorso di Pier delle Vigne è interrotto dall’apparizione delle ombre di due scialacquatori e, dietro loro, di una muta di nere cagne fameliche. Mentre uno di questi due dannati . riesce a sottrarsi alla caccia, l’altro, esausto, cerca riparo in un cespuglio, ma le cagne, non tardano a scoprirlo e lo sbranano ferocemente. La loro violenza non risparmia neppure il cespuglio, dal quale una voce si leva a protestarle contro tanto scernpio. Quella che adesso parla è l’anima di un suicida fiorentino: prega i due pellegrini di raccogliere ai piedi del suo corpo vegetale le fronde di cui è stato mutilato e lamenta le sventure abbattutesi sulla sua città.


    Introduzione critica

    La selva deI suicidi è l’espressione tangibile dell’innaturalezza del loro peccato, dell’empietà, radicata nella superbia, che condusse questi infelici a disprezzare il dolore, a disperare della giustizia che ripara ogni torto, al di là dell’ingiustizia degli uomini. Per gli antichi il suicidio non rappresentava un atto moralmente riprovevole; l’uomo era considerato padrone della sua vita fino al punto di potersela togliere, e responsabile di essa soltanto nei confronti di se stesso. Tutta una tradizione letteraria ha esaltato le figure di quegli stoici che, ostacolati dalla tirannide nell’esercizio della libertà, preferirono darsi la morte anziché riconoscersi soggetti ad un’autorità che non fosse quella della loro coscienza. Ma il Cristianesimo ha dato all’idea di libertà una dimensione ignorata dagli antichi, trasferendola, dal piano esclusivamente umano - sul quale essa finiva per identificarsi con la libertà politica - al piano dei rapporti dell’uomo con Dio, fonte e fondamento di tutti i valori.

    L’uomo, per il cristiano, deve svolgere nel mondo un compito che non si esaurisce nell’ambito dei doveri verso lo stato. Egli non appartiene solo a se stesso o alla comunità dei suoi simili, né può disporre a suo piacimento di ciò che non è opera sua, ma dono, gratuito ed inestimabile, di Dio, la più alta espressione della sua potenza creatrice e del suo spirito d’amore: la vita.

    Nel canto tredicesimo la metamorfosi dell’uomo in pianta, già ampiamente trattata dagli autori latini, diviene, per Dante, cristiano, consapevole all’estremo della dignità umana, quel qualcosa di tragico e di irrimediabile che è la degradazione dell’umano nelle forme di un ordine inferiore.

    Scrive lo Spitzer: "là dove Ovidio dispiega al nostro sguardo la ricchezza della natura organica, Dante mostra l’inorganico, l’ibrido... il peccaminoso, il dannato". E, ancora, precisando: "Però una metamorfosi di Ovidio, pur essendo presentata come " naturale ", è forse meno " reale " di quella di Dante. Ovidio tratta una tradizione leggendaria che ripete come se vi credesse; le sue favole si svolgono in un remoto passato ed hanno una patina di leggenda. Invece i due protagonisti della metamorfosi di Dante, Pier delle Vigne ed il suicida anonimo, erano quasi contemporanei del Poeta: figurano nel poema in quanto appartengono all’eterno presente ed illustrano il giudizio di Dio che è universalmente vero: de te fabula narratur".

    Per quel che riguarda lo spunto che il Poeta può aver tratto, nell’immaginare il bosco dei suicidi, da Virgilio, già il De Sanctis aveva notato come la figurazione dantesca si origini in una disposizione di spirito che è agli antipodi di quella del suo modello latino. Nessun indugio, in Dante, nell’analisi delle proprie impressioni; nessuna concessione a quella levigatezza di trapassi che, in Virgilio, riesce a rendere "elegante anche l’orrore". Il motivo dell’albero che sanguina - pittoresco prima ancora che tragico nel terzo libro dell’Eneide, subordinato com’è al flusso ampio della narrazione, confinato nella funzione di illustrare il carattere di un paese inospite, dal quale gli dei vogliono che Enea si allontani al più presto - si isola, in Dante, come una delle espressioni più vigorose e coerenti di quella logica del male che è alla base delle figurazioni sia plastiche sia psicologiche dell’Inferno.

    Nel bosco lacerato dalle Arpie, percorso dalla caccia furente e disumana in cui la preda è l’uomo (gli scialacquatori) e gli inseguitori sono animali, il discorso di Pier delle Vigne sembra riportare la misura dell’umano, creare come un’isola di tregua, trascendere l’orrore di questa condanna senza appello. Per un attimo dimentichiamo quasi che colui che parla è ridotto a un tronco inerte e trae faticosamente le sue parole da una sanguinante lacerazione. Ci chiediamo: "e dov’è più l’inferno? dov’è il tronco? noi siamo in Napoli, nella corte di re Federico, innanzi ad un cancelliere" (De Sanctis).

    Ma, a guardar meglio, la rievocazione del sereno mondo dei vivi ad opera del protonotaro imperiale appare forzata e come costretta anch’essa in forme innaturali. La sua parola diventa schietta ed esprime una profonda emozione solo quando proclama la propria innocenza, e giura sulle sue radici. Ma proprio queste, legandolo alla terra - lui così eccitabile nei moti del suo animo (sì col dolce dir m’adeschi ... ), così lontano, nel suo parlare fiorito, da ogni forma di raccordo con il reale -appaiono come il simbolo supremo della sua estraneazione dall’umano. Il linguaggio di Pier delle Vigne riflette compiutamente - nel compiaciuto gioco di antitesi e parallelismi, nel gusto per la circonlocuzione studiata, nel "tragico e grottesco grandinar di metafore" (Apollonio) che lo caratterizza - da un lato quello che doveva essere stato il carattere di questo uomo di corte, tutto inteso, in vita, al suo glorioso offizio, dall’altro, per contrasto, l’innaturale coercizione della sua condizione attuale, il suo peccato irrigidito e reso eterno dalla sentenza di quel giudice che egli non seppe considerare come padre e fratello. Non è esatto scorgere, nel modo di parlare di Pier delle Vigne, soltanto la manifestazione di un carattere debole o vanitoso o insincero, secondo i punti di vista espressi dal De Sanctis e, recentemente, dall’ApolIonio, e neppure soltanto un ritratto "linguistico" dell’elegante stilista capuano, secondo la tesi del Novati.

    Dante, pur così ricco di determinazioni realistiche, non intende mai darci una copia di ciò che possiamo vedere coi nostri occhi in terra. La sua non è una poetica naturalistica; i suoi " ritratti ", tutti orientati nel senso della caratterizzazione morale, sono in funzione di un significato che li trascende.
     
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